Lo scorso 31 gennaio la città apprende che no, il sindaco De Luca proprio non ci sta a spendere il milione e mezzo di euro stanziato dalla passata amministrazione a favore dell’autoimprenditorialità dei rom! Ci mancherebbe, sembrerebbe il pensiero dell’amministratore, che si distraessero somme dal grandioso progetto dello sbaraccamento. Il confronto tra il sindaco e una associazione di rappresentanza dei rom, si sente, è stato aspro. La risposta di De Luca, addirittura, è stata “categorica, decisa e perentoria”.

Così, mentre riecheggia in testa il “prima gli italiani!” di Salvini e Casapound, viene anche da pensare che il passo da democristiano e, perciò, da soggetto ecumenico, conciliatore e attento alla questione sociale, a leghista, è di questi tempi assai breve. Ugualmente ritorna in mente l’impressione, maturata nei mesi di campagna elettorale, che De Luca costituisce un interessante esempio di “adattatore”: per quanto munito di tratti propri e originali, la sua specialità consiste infatti nel prendere temi e modalità politiche di successo per piegarle al contesto locale.

Se a livello nazionale a otto italiani su dieci piace l’uomo forte, Cateno dà ai messinesi il loro leader di ferro. Se a Salvini non piacciono gli immigrati, a De Luca non piacciono i rom. Tuttavia, se Salvini manda bacini agli oppositori ed esprime a tratti una selettiva giovialità (rivolta per lo più, ma non esclusivamente, ai propri simili; cioè gli italiani bianchi e onesti che tifano per lui), De Luca non esita a mostrarsi spesso livido e arrabbiato, con le forme proprie di chi non sia riuscito del tutto a completare il “passaggio di classe sociale”. Quel passaggio, in altre parole, che consiste nella capacità di sapersi contrapporre a qualcuno senza rinunciare all’urbanità (persino quando si condanni l’avversario a morire annegato; Matteo Salvini docet). Le forme esibite da De Luca, insomma, sono quelle di chi non ha assunto un habitus adeguato al ruolo e che però, nel fare questo, suggerisce al proprio pubblico una sostanziale autenticità e fedeltà a sé stesso, oltre che alla propria platea di riferimento (rappresentata non dalla borghesia, ma dal “popolo”). Lo stesso tipo di operazione, peraltro, che, con riferimenti culturali e politici ben diversi, ha tentato anche Renato Accorinti nei confronti dei movimenti sociali che lo hanno supportato. La qual cosa, paradossalmente, rende Salvini, Accorinti e De Luca meno dissimili tra loro di quanto si potrebbe pensare.

Ma lasciamo da parte le fenomenologie per entrare nelle questioni serie. Che i politici siano attori e interpretino personaggi non è una novità ed è la cosa meno interessante ai nostri fini. Ciò che interessa, invece, è la questione sociale. Che De Luca interpreti l’uomo forte di estrazione ultra-popolare rientra nel gioco delle parti e nella disponibilità delle risorse culturali a disposizione del politico. Ma attenzione a confondere rappresentazioni teatrali, proclami roboanti e realtà sociale.

Mentre il siparietto riportato a inizio articolo avrà presumibilmente fatto piacere ai molti che avvertono una competizione degli stranieri sugli italiani, queste stesse persone dovrebbero sentirsi invece molto preoccupate per una serie di ragioni.

La prima è che il sindaco di questa città sottrae arbitrariamente risorse legittimamente stanziate, distogliendole ai legittimi beneficiari. L’uomo forte, dunque, è anche un soggetto arbitrario, che fa e disfa a proprio piacimento. Se oggi tocca ai rom essere delusi e deprivati di un diritto, domani la medesima esperienza potrà toccare a chiunque si creda oggi destinatario di un legittimo beneficio e, perciò, al sicuro. Basterà che prevalga un interesse ritenuto più importante…

La seconda ragione è che De Luca, proprio come Salvini, propone il mito dell’amministrazione pubblica come forma di “idiozia monofunzionale”. L’amministrazione – è il messaggio di chi dice “prima gli italiani” oppure “prima lo sbaraccamento” – può occuparsi solo di una questione alla volta. E anche che se si occupa di una categoria bisognosa, le altre devono scomparire o, quantomeno, porsi da parte sino a che giunga il loro turno. Un turno che verrà solo quando la “grande questione” che precede verrà risolta. L’uomo forte, dunque, è anche un uomo che nega la complessità delle condizioni e dei bisogni.

Il terzo motivo per cui preoccuparsi è che il sindaco De Luca perpetua una questione sociale storica, fondando le proprie decisioni su considerazioni sociologicamente errate. Nel suggerire, quantomeno attraverso la propria condotta, che vengono prima gli italiani nelle baracche, il sindaco pretende di ignorare le trasformazioni e la complessità della cittadinanza che è chiamato ad amministrare. Molti di quelli che il linguaggio burocratico si ostina a chiamare “rom” oppure “immigrati”, non sono infatti davvero tali.

Attraverso i meccanismi della naturalizzazione o della lungo-residenza, molti di loro hanno legittimamente preso a fare parte della compagine nazionale. Al punto che un terzo di quei famosi cinque milioni di persone che entrano nel computo dei poveri assoluti, e che tanta importanza assumono per i sostenitori del “prima gli italiani”, è composto da “stranieri”. Ossia da persone di origine straniera, che però risiedono in Italia, sono spesso naturalizzati o cittadini, sono “censibili” e, soprattutto, non lasceranno il paese.

La ragione per cui la pubblica amministrazione, e insieme a lei il linguaggio comune, si ostina a chiamare questi “cittadini-di-fatto” stranieri oppure rom sta, da un lato, in quella sorta di impossibilità cognitiva a riconoscere che esistono degli italiani non-bianchi o, come si dice in inglese, “con un accento” (ragione per cui Mario Balotelli per molti non è, e mai sarà, italiano). E, dall’altro, nella necessità istituzionale di rimarcare che questi gruppi esperiscono un sovrappiù di difficoltà. È la stessa logica delle cosiddette “affirmative action” americane, rivolte per esempio agli afro-americani. Mentre potrebbe risultare superfluo dire che un cittadino statunitense è afro-americano, farlo nei documenti ufficiali serve a ricordare l’eccesso di disuguaglianza a cui storicamente questi gruppi sono esposti.

Lo stesso avviene in Italia e a Messina. I “rom” a cui Cateno De Luca nega i soldi per intraprendere delle attività sono soldi negati a degli italiani-di-fatto e poveri. Un gruppo, peraltro, imprigionato nel paradosso della criminalizzazione. Comunemente ritenuti, solo in parte a ragione, ladri, truffatori o criminali, il destino che l’istituzione locale immagina per loro è la continuità nella marginalità. Negando i soldi legittimamente stanziati per la loro promozione sociale, ciò che De Luca dice loro è che sono poveri, in qualche caso forse persino criminali, e che tali devono continuare a essere nei secoli dei secoli. Inutile notare che tra questa condizione e quella dei pregiudicati italiani dediti all’abusivismo commerciale per l’impossibilità di ottenere licenze, vi è ben più che qualche somiglianza…

Insomma il motivo principale per cui i “cattivisti” italiani – per lo meno, quelli tra loro che non hanno un portafoglio gonfio – dovrebbero preoccuparsi è che l’uomo forte, si chiami questo Salvini oppure De Luca, malgrado ciò che dice, è anche un personaggio che non ha molto a cuore i poveri. Per l’appunto oggi i rom, domani chissà.

In conclusione, forse lo preferivamo democristiano.

 

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Antonio
Antonio
2 Febbraio 2019 0:42

Il paragone don Renato Accorinti è gratuito inquanto de Luca ha una recitazione teatrale a livelli professionali mentre Renato sembrava un disco incantato.Ovviamente anche il pubblico a cui si rivolgeva era diverso, istruito e laureato il precedente, semianalfabeta e paesano il secondo. La complessità dl’articolo produce giramenti di capo shakesperiani MA alla fine prevale salvinismo intimidatorio

Linda
Linda
5 Febbraio 2019 13:05

Interessantissimo pezzo.