“Delitto d’onore fu, piaceva anche alle donne sposate…”. “Ma no, che dici? Si è trattato di una diagnosi sbagliata fatta a un boss calabrese!”. “Ma che diagnosi e diagnosi, qui c’è di mezzo una vendetta trasversale! Hanno colpito lui per avvertire altri”. “No, no, la cugina del fratello della cognata di mio zio, che fa a ‘nfimmera o’ Policlino, ci dissi che è stato per la ristrutturazione di un Padiglione…”.
Venti anni fa, il 15 gennaio 1998, la vita di Matteo Bottari viene fermata bruscamente da un fucile. Anzi, più precisamente, da una rosa di proiettili in pieno volto mentre parla al telefono con la moglie Alfonsetta Stagno d’Alcontres.
Tutto si consuma all’incrocio tra viale Regina Elena e Viale Annunziata, al semaforo: gli spari, l’auto che riprende a muoversi, un lento tragitto fino alla saracinesca di una videoteca. Stop. Un paio di fotogrammi e un tragitto diventati metafora tragica della stessa città di cui Bottari era uno dei figli più apprezzati: bravo medico endoscopista, docente universitario, genero di un rettore e pupillo del suo successore. Metafora di una Messina “tranquilla” (ma sull’orlo del baratro) che sta sperimentando il primo sindaco di centrosinistra della storia, è ancora esaltata da una inedita movida estiva e deve ancora da smaltire pranzi, cene e panettoni.
Matteo Bottari viene ucciso, ed è un pugno nello stomaco. Al bar, negli uffici, lungo i corridoi, nelle segrete stanze, in qualsiasi momento non si parla d’altro: della morte, del mandante e del movente. Le ipotesi si sprecano, i deliri si sublimano e tanti altarini (veri, presunti) vedono la luce. Dal 15 gennaio fino al 31 dicembre successivo è un crescendo rossiniano con la tragicità di Wagner: giunge la Commissione nazionale Antimafia, e la città si scopre un “verminaio”; scoppia un “Caso Messina”, che determina le dimissioni del sottosegretario agli Interni, Angelo Giorgianni (il pm di punta della tangentopoli dello Stretto); l’Università vede la riconferma del rettore uscente, Diego Cuzzocrea, il suo successivo abbandono e, quindi, l’elezione di un nuovo Magnifico, Gaetano Silvestri, grazie all’appoggio dell’allora preside di Medicina, Franco Tomasello. Ogni passo, ogni evento, però, sono illuminati dai riflettori dei media nazionali.
A giugno del 1998, sembra arrivare la svolta: per l’omicidio ci potrebbero essere un mandante e un movente, ma non gli esecutori materiali. Secondo i sospetti della Procura, Giuseppe Longo, gastroenterologo e collega di Bottari, avrebbe commissionato il delitto in seguito a dissidi sorti in relazione alla ristrutturazione di un padiglione del Policlinico. Il medico piomba nel tritacarne giudiziario, ma l’accusa non viene mai formalizzata e Longo viene assolto. Insomma: si deve ricominciare da zero.
A fine settembre, a mettere una pietra tombale sulle speranze di una città traumatizzata, ma che auspica una svolta definitiva, ci pensa un altro evento-presagio: si abbatte un’alluvione e a perdere la vita sono Nino Carità, la moglie Maria e la figlia Angela, travolti dalla piena dei torrenti che confluiscono nell’Annunziata, mentre, a Pace, un’ondata di fango porta via il cingalese Simone Fernando, il cui corpo non sarà mai ritrovato.
E oggi? Oggi, a vent’anni da quel 15 gennaio, dell’omicidio che squarciò lo Stretto non si sa nulla. Ogni tanto, come un fuoco fauto, galleggia qualche ipotesi destinata a spegnersi poco dopo. Chi sapeva, chi avrebbe potevo regalare una traccia, buona parte dei protagonisti non ci sono più; come i due rettori più vicini al medico o come Giuseppe Longo, che si è suicidato. Scomparsi, pure i luoghi del delitto: una rotatoria ha mandato in pensione il semaforo e al posto della videoteca c’è una nuova palazzina. A rimanere, invece, è una città che ha visto sfilare al Comune (tra onori e disonori) tre sindaci e due commissari, che ha pianto quasi quaranta morti per un’altra alluvione, nel 2009, a Giampilieri (perché la storia nulla insegna), e che in diciannove anni ha perso uffici dello Stato, ovvero entrate e indotto.
Resta, triste, umida e ventosa, solo una Messina bifronte. Una Messina che nei salotti si accalora per Autorità portuale, isole pedonali, aeroporti nella Valle del Mela e sindaci “free-Tibet” mentre, in periferia, si infiamma con bottiglie di benzina usate per “amore”.
Da tutto questo, forse, si potrebbe e si dovrebbe ricominciare, stanando la Speranza dal fondo del Vaso di Pandora. Anche se, sinceramente, il pessimismo della ragione vola più verso Marquez: perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non hanno una seconda opportunità sulla terra…
Molto bello, Daniele. Tanti auguri.
Interessantissima disamina della vergognosa situazione del messinese buddace e della Città negligente che, con assoluta apatia , vedono scorrere la storia che gli altri decidono per loro . Ben tornato al giornalismo di qualità ,caro Daniele .Complimenti!
Messina ha la memoria corta, ma forse soprattutto nessuno ha avuto realmente la voglia di cercare la verità.
L’oblio ha fatto comodo a molti, tanto, probabilmente il messaggio che si voleva inviare è stato recepito, e la ruota gira.
Auguri per la nuova avventura a te ed alla redeazione tutta!
L’amarezza di una citta’ senza speranza.
Ottima sintesi.
Bravo !complimenti
Bella l’analisi, quasi spietata. L’unica cosa di cui non trovo traccia è l’appartenenza di molti dei personaggi citati alla massoneria. Dimenticanza o ……………………?
bravo Daniele
Bravo Daniele.
Complimenti! Molto bello.
ma non venne fuori qualche tempo una famosa intercettazione fatta al Select tra un imprenditore ed un avvocato dove uno rivelava all’altro l’ipotetico mandante ?