MESSINA. Da duecentoventi anni circa, ciò che resta di Largo Avignone continua a resistere nonostante tutto: un pezzo di città nella città, una testimonianza dell’architettura civile messinese posteriore al sisma del 1783 che ha saputo resistere al terremoto del 1908 e alle bombe della Seconda Guerra mondiale, ma non all’uomo. Ancora oggi, ciò che rimane della stecca di case che correva parallela a via Cesare Battisti sono le facciate e qualche parete interna. L’edificio più a destra, invece, non è più avvicinabile perché lo spazio antistante è divenuto proprietà privata ed è stato chiuso da una parete con tanto di avviso di video sorveglianza.
Un quartiere popolare sbranato, Largo Avignone, prima dalle buone intenzioni di Padre Annibale di Francia, che voleva bonificarlo, e poi da speculazioni edilizie. Adesso, a più di venticinque anni dall’ultima demolizione, le palazzine superstiti del “quartiere nel quartiere” sono di nuovo in attesa di conoscere il proprio destino: la Soprintendenza di Messina, la stessa che più di due decenni fa anni aveva provato a vincolarle, nel 2013 ha dovuto dare l’okay alla “Torre imperiale”, un grattacielo progettato dall’ingegnere La Galia e dallo studio La Spina, che prevede il mantenimento delle facciate. Unico a resistere è stato il Comune, che non ha rilasciato la concessione edilizia.
L’area, oltre a essere un pezzo della Messina che non c’è più, è un vero e proprio scrigno archeologico: il quartiere Avigone, infatti, racchiude dieci secoli di storia in pochi metri quadrati. A dimostrarlo, le tre tipologie di tombe, corredi funerari e utensili vari, sepolti in zona dalla pianura alluvionale del fiume Camaro e ritrovati a neanche qualche metro, sotto una palazzina demolita nei primi anni Novanta. Lì, gli scavi archeologici avevano restituito una parte della necropoli che dal V secolo dei primo millennio arriva al IV avanti Cristo, tanto da far scattare il vincolo per l’isolato 96. Le indagini iniziarono nel 1994, sotto la direzione di Gabriella Tigano e grazie a due finanziamenti regionali di 150 e 200 milioni. Dopo aver setacciato l’area dove ora esiste l’edificio che ospita la Dia, lo scavo si era concentrato nella parte retrostante, che confina con la via degli Orti. E proprio il terrapieno esistente tra questa e la via Cesare Battisti, creatosi grazie ai depositi del Camaro, aveva lasciato integre e sovrapposte le tombe. Il livello più alto era caratterizzato da sepolture di epoca tardo romana, con tombe in muratura, coperte a cupola e circondate da recinti, con inseriti elementi architettonici anche di un certo pregio. All’interno erano stati ritrovati corredi funerari, monete e vasetti. Il livello intermedio, invece, risaliva alla prima età imperiale. Si trattava per lo più di fosse terragne, di sepolture povere. Diverso il discorso, invece, per il terzo livello di scavo, e cioè quello più profondo e più antico. A questa parte appartenevano tombe di epoca ellenistica e di tipo monumentale (epitymbia). Le sepolture erano costruite con conci squadrati a gradoni della stessa tipologia di quelle ritrovate nell’area dell’antica Abacena (Tripi). Oltre al valore squisitamente architettonico dei manufatti, si devono aggiungere anche i corredi funebri che erano venuti alla luce dopo l’apertura: vasellame in ceramica, specchi, strigili (attrezzi per detergersi), pissidi in piombo. Oggetti semplici ma in buono stato di conservazione. A rendere interessante il sito archeologico è la ricostruzione della struttura sociale di Messina nell’arco di dieci secoli. Dalla tipologia delle sepolture si può infatti dedurre che la zona di largo Avignone sia stata un’area di tombe del ceto medio borghese della città, con l’unica eccezione del periodo risalente alla prima età imperiale, le cui fosse terragne sono da attribuire agli strati popolari.
La DIA lì non ha più gli uffici da circa un anno