La rete fantasma (ovvero “A Messina non c’è nenti”)
“Nessun uomo è un’isola”? Ah, John Donne, se fossi nato a Messina… Fare rete? Partecipare? Condividere? Cooperare? No signore. Qui siamo tutte monadi. Mai insieme. Solo tanti piccoli orticelli. E guai a chi ce lo tocca, il nostro piccolo orticello. In riva allo Stretto si campa da soli, di nascosto, “a mucciuni i ddiu”. E da soli si ha il successo, se si ha. Solo la sconfitta è pluralistica.
Ho fallito? Colpa della società, delle circostanze, dell’invidia. Ci sono riuscito? Merito mio. Ma che non si sappia troppo in giro. Perché è meglio continuare a credere che “a Messina non c’è niente”. È comodo, è autoassolutorio, è pure consolante. Perché fare, a meno che tu non sia Steve Jobs (e nemmeno, perché pure Steve Jobs ha avuto il suo Steve Wozniak) vuol dire condividere, confrontarsi con qualcosa. Impossibile. L’autoreferenzialità per la quale gli altri sono sempre e comunque più scemi di noi, a prescindere da quanto lo siano o non lo siano davvero, è precondizione. Nel frattempo, il mondo va avanti. Insieme. Messina resta invece orgogliosamente ferma al palo. Perché piena di “scaltri”: i capostipiti di una stirpe che ha deciso di sua sponte di essere condannata a cent’anni di solitudine.
Bel pezzo.
Forse, sarebbe da aggiungere un sesto punto, che è l’abitudine al brutto: l’abusivismo, le colate di cemento, la distruzione del (pochissimo) verde, le cose fatte a metà o fatte “addamanera”.
O, probabilmente, sarebbe bastato il primo punto per racchiudere tutto.