Non ricordo di aver mai visto una foto in cui Giovanni Falcone non sorridesse. Non credo ne esistano.
Un sorriso complice, o uno beffardo, o ancora, uno sardonico. Anche solo un sorriso felice.
L’ho sempre visto col sorriso a dare luce a quel viso paffuto, da buontempone, da uno al quale non daresti tutto ‘sto credito, senza conoscerlo.
Poi dice che le apparenze non ingannano.
Giovanni Falcone sorrideva sempre, nonostante il peso di quell’enorme spada di Damocle che si portava dietro, per la consapevolezza del suo ruolo e per l’ancora più grande consapevolezza che un giorno quel suo ruolo glielo avrebbero fatto pagare salatissimo.
Sorrideva, Giovanni Falcone. Nonostante tutto. Nonostante i corvi, i veleni, i doppiopetti ministeriali che lo sgambettavano, nonostante la palude e la zona grigia, nonostante l’invidia e la vendetta, come nel 1989, quando qualcuno lanciò l’avvertimento all’Addaura, quei non so quanti kg di tritolo destinati a non scoppiare, ma a fargli riconsiderare le sue priorità. Me le ricordo, le voci, le maldicenze, le critiche, le accuse, la calunnia che è venticello, il sospetto che è l’anticamera della verità: era la Palermo degli anni ’90, non la Stasi nella Ddr del 1971.
È un malato di protagonismo che inventa gli attentati per farsi pubblicità.
L’esplosivo se l’è messo da solo.
È una mossa per fare carriera.
E anche lì, Giovanni Falcone sorrideva. Amaro, magari. A denti stretti. Ma sorrideva
Poi, all’improvviso, ha smesso.
Io me lo ricordo, quel 23 maggio. Era un sabato pomeriggio, caldo, ozioso, di quelli che trascorrevano lenti e noiosi, di quelli che un diciannovenne non vede l’ora che si faccia sera tardi per uscire. Me lo ricordo il clima da apocalisse, il silenzio, il sudore e il frinire delle cicale che accompagnava la sensazione che in quel momento, a duecento km di distanza si stesse scrivendo la storia, quella vera, quella dei libri di scuola. Me le ricordo, le notizie frammentarie. Me le ricordo, le voci che si rincorrevano sui telegiornali.
Era morto.
No, era ferito ma cosciente.
No, era grave ma non in pericolo di vita.
No, era spacciato.
No, in fin di vita ma parlava.
A spegnere quel sorriso è arrivata la sera di quel sabato caldo e ozioso di fine maggio del 1992, quando ormai anche il più possibilista dei cronisti si era arreso all’ineluttabilità del concetto di onore e di vendetta di Cosa Nostra.
Antonio Montinari. Vito Schifani. Rocco Di Cillo. Francesca Morvillo Falcone. Giovanni Falcone. I loro resti sparsi per duecento metri di autostrada, a Capaci.
È arrivata la sera, e i bollettini medici, e le trasmissioni interrotte, e le edizioni speciali, e i filmati, e le foto. Anche le foto delle auto disintegrate da quattrocento kg di tritolo e t4, e sotterrate dalle macerie di duecento metri di strada saltati per aria. Le foto delle tre Fiat Croma. Soprattutto la prima, quella di scorta, sigla Quarto Savona 15, quella sulla quale viaggiavano gli uomini di scorta a Giovanni Falcone. Quella investita in pieno dall’esplosione e scaraventata cento metri più lontano da un’autostrada sventrata che nemmeno a Beirut nel 1985, che solo con molta fantasia si poteva credere che qualche ora prima fosse una macchina, tanto era deformata.
Lì dentro, guardando con attenzione, c’erano i resti della speranza dei siciliani.
Quella speranza che aveva il volto sorridente di Giovanni Falcone, e che ha smesso di avere senso di esistere quel pomeriggio afoso, canicolare del 23 maggio del 1992. Un sabato di venticinque anni fa. L’orizzonte degli eventi per chi ogni 23 maggio, ogni 19 luglio, ogni 5 gennaio, ogni 8 gennaio, ogni 30 aprile, ogni 21 settembre, si ferma e guarda il cielo per un attimo, e si ostina a non voler capire quello che è ormai chiaro, cristallino. La Sicilia è un coccodrillo che mangia i suoi figli migliori.
(Quell’auto, per un ventennio, ha trovato dimora all’autoparco della polizia, qui a Messina, segregata al mondo per un anno e tirata fuori solo durante le celebrazioni di quel giorno infausto. E nonostante questo, il Comune di Messina, ma anche la Provincia, la Prefettura, il Tribunale, la Camera di Commercio, le forze armate, gli ordini professionali, una intera città in cui misteriosamente sono rimasti a marcire i rottami, in vent’anni non ha trovato una sistemazione consona e solenne, o anche solo significativa. Così, giusto per la cronaca).
La cosa che trovo più triste è ritrovare su una testata siciliana nuova come la vostra certe retoriche scariche di impegno civico e professionale, a niente altro utili che a seppellimenti e lacrimucce. Falcone sorriderebbe?
Impegno e coraggio. Quel tritolo segnò una linea, è necessario scegliere se stare da una parte o dall’altra, in mezzo rimane il cratere e quelli che decidono di nascondere la testa nella cenere.
Dopo quasi trent’anni l’ennesimo temino sentimentale.