Il genere della parola arancino ha recentemente rischiato di far precipitare la Sicilia in una guerra civile. Si dice infatti “arancino” o “arancina”?
Si sono versati fiumi d’inchiostro (reale e virtuale) per sostenere le cause ora dell’una ora dell’altra pronuncia. Si è interpellata persino l’Accademia della Crusca, che, salomonicamente, ha dato ragione a entrambi gli schieramenti, dicendo che tutte e due le parole vanno bene, a seconda dalla zona: a Palermo, per esempio, la parola è femminile, a Messina e a Catania, maschile. E poiché è l’uso che fa la lingua, se una fetta grossa della popolazione usa un termine ritenuto errato, quello viene registrato nei dizionari.
La storia linguistica è costellata di grammatici che hanno provato a respingere – con risultati deludenti – pronunce errate, pronomi impropri e così via. Mi vengono in mente alcuni esempi dal passato: il povero maestro di età tardo-antica che si sforzava di spiegare ai suoi allievi che si doveva dire auris e non oricla; o i teorici cinquecenteschi della lingua (Bembo fra tutti) che si battevano contro il lui usato come soggetto al posto di egli; o, per venire ai giorni nostri, quelli che pronunciano guaìna (e non guàina) perché etimologicamente più corretto. Il che non significa necessariamente che ognuno può parlare (e soprattutto scrivere) come gli pare. È in buona sostanza la raccomandazione data dalla Crusca al bambino che ha coniato il termine petaloso: bravo, ma sappi che non basta inventare un aggettivo perché questo entri a far parte della lingua.
Questo preambolo è necessario perché un’altra guerra, sia pur in scala ancor più ridotta, potrebbe scatenarsi e coinvolgere la popolazione messinese: si dice pidoni o pitoni?
La risposta è semplice: visto che la parola si sente e si trova scritta sia con la d che con la t, entrambe le pronunce dovrebbero essere accettate. Solo che una è etimologicamente più corretta dell’altra, ed è pidoni, con la d (o, nella sua forma tipicamente siciliana, piduni). Ho letto negli ultimi giorni ricostruzioni tanto belle quanto fantasiose che farebbero risalire la parola al greco, all’arabo, al fenicio. Poesia pura. Ma la realtà è spesso più prosaica. Non bisogna infatti scomodare il greco pita, alla base (questo sì) del calabrese pitta, ma cercare la soluzione più economica: piduni infatti viene più semplicemente da pedi, ‘piede’. Una semplice metafora, simile a quella per cui dalla calza si arriva al calzone che ordiniamo in pizzeria. Il termine, infatti, vuol dire in primo luogo ‘calza per uomo di lana ruvida’ o ‘soletta della calza’ e poi, per traslato, ‘sorta di focaccia costituita da una sfoglia di pasta imbottita con vari ingredienti, ma sempre a base di verdure’ (cito dal Vocabolario siciliano di Piccitto e Tropea, lo strumento più completo per questo tipo di ricerche). Perdendosi il significato primario di piduni, si è dissolto il nesso fra pedi e piduni. È un classico esempio di “dialetto opaco”, di una parola dialettale cioè non più comprensibile perché si è perduto il legame etimologico con l’oggetto o l’attività a cui si riferiva (un esempio sono i colli Sarrizzo, impropriamente detti San Rizzo, santo che non è mai esistito).
Ma come mai in molti pronunciano la parola con la t? Anche qui il processo è analogo. Partiamo da un altro esempio gastronomico: come si chiama ‘il complesso del duodeno, del digiuno e dell’ileo del bovino’ che si compra per strada arrostito alla brace? Alzi la mano chi ha pensato a taione (o taglione). Ebbene, anche qui si è persa la nozione che in messinese daiunu o daiuni vuol dire ‘digiuno’ (in altre varietà del siciliano si ha diiunu) e quindi, andato via il legame digiuno/daiunu, si è arrivati a pronunciare queste parole con la t. Non entro in questioni più complicate, sul perché la d siciliana sia pronunciata in maniera diversa rispetto a quella dell’italiano standard, quasi come una t: ciò che importa è che i pidoni o pitoni siano preparati bene: tenendo a mente che la ricetta originaria comprende l’acciuga. I filetti spezzettati, infatti, danno al piatto la componente umami, parola giapponese che caratterizza uno dei cinque gusti fondamentali percepiti dalle nostre papille, quello del ‘saporito’, assieme al dolce, al salato, all’amaro e all’aspro. Insomma, un pidone senza acciuga sbilancia il gusto a favore del salato (della pasta fritta) e dell’amaro (della scarola). Se quindi vogliamo essere puristi, quindi, i pidoni (e non i pitoni) dovrebbero mangiarsi con l’acciuga, ingrediente che per lo stesso motivo dovrebbe trovarsi anche sulla focaccia. Ma da quel che mi risulta, e per fortuna di quelli che come me non amano questo ingrediente, nessun rosticciere si è finora rifiutato di servire pidoni o focaccia senza acciuga.
Il dilemma nasce soprattutto dalla pronuncia singolare del suono affricato perfettemente a metà tra la d e la t,retaggio sia arabo che spagnolo.
Dario, amico mio! magistrale dissertazione, ma i piduna senza acciughe sono come un arancino senza ragout (o ragù?)
senza acciuga non si può leggere…..
Articolo chiarificatore.Amo le spegazioni etimologiche e linguistiche sin dal primo esame a colpi di de Saussure ma… se è senza acciuga non è “piduni” messinese.
No Acciuga??? No Pidone!!!
Da non messinese ho apprezzato molto questa delucidazione. Pitone o pidone che sia, andrebbe dichiarato patrimonio dell’umanità
No, le acciughe ci vogliono, vaja va’ ! 😀
Caro cugino… Il piTone senza acciuga è niente di meno che un’eresia. Ma a te si perdona anche questo 😉
Già parlare di pitoni senza acciughe è una pura eresia, dico pitoni e non pidoni perché veniva anticamente preparato in onore del dio Piton, quando ancora non si conosceva in Europa il pomodoro e quindi il vero pitone alla messinese è certamente con acciuga e senza pomodoro. Ovviamente ognuno secondo il proprio gusto può metterci gli ingredienti che vuole ma non lo chiamerà Pitone alla messinese.
Certo, ognuno può pronunciare la parola come vuole , ma è certo che i “pituni” senza acciuga e senza cipolle nuove , (impropriamente dette “scalogni”) , “non mmannu nenti” !!