Luglio 1993, gennaio 1994: per la Democrazia cristiana la soluzione finale. I ricordi che diventano memoria. Prima, gli incontri del piccolo gruppo di lavoro alla Camilluccia che vedevano il differenziarsi di almeno due posizioni: gli amici del vecchio preambolo e del Caf e la sinistra. Poi l’accelerazione dovuta alle assemblee autoconvocate di Palermo e del Veneto, con la plateale assenza delle nomenclature del tradizionale potere interno, con le imbarazzate resistenze al cambiamento e con la non accettazione del progetto di documento che si esprimeva per la determinazione di dar vita a un nuovo soggetto politico, in netta discontinuità dal tradimento dei valori ampiamente perpetrato; infine con molte riserve veniva accettata la delega piena a un titubante, volutamente ignaro, Martinazzoli per la convocazione dell’assemblea fondativa del nuovo soggetto.
Nelle convenzioni estive del 93 e del successivo 19 gennaio le differenze apparvero più chiare (i resoconti registrati delle assemblee plenarie e dei lavori dei gruppi di lavoro, con un migliaio di interventi, dovrebbero essere conservati dall’istituto Sturzo, per iniziativa di Maria Eletta Martini, …ma è possibile che siano stati manomessi?): da un lato un interrogarsi doloroso e difficile sulle ragioni del malessere, un tentativo di accostarsi alle radici etiche della nostra concezione del potere, dall’altro la ricerca di giustificazioni e la convinzione che il malessere e il degrado, lungi dall’essere obiettivi, appartenessero a una ragione altra: la ragione di misteriosi complotti, anche internazionali, strumentalmente semplificati.
Come non ricordare l’agitarsi farneticante, tipo dottor Stranamore, del plenipotenziario regionale della Dc siciliana (un uomo giusto al posto giusto) con la mascella volitiva la “voce dura” e la bocca piena “di sole e di sassi”, partorito dalla fantasia di De Mita e dal bisogno di garanzie da offrire a Lima, nel lungo interminabile conciliabolo a Punta Raisi, sotto le ali dell’aereo della Parmalat? Quando appunto Lima sarà utilmente promosso a “non-mafioso”? (E pensare che nemmeno Andreotti c’era riuscito! D’altra parte gli serviva così: che farsene di un Lima non mafioso? ). Poi pensate sarà Falcone (udite, udite) a confermarglielo…ma forse De Mita non aveva capito, ma questo non lo sapremo mai…morto ormai il povero Falcone. Comunque accadrà il <tutti dentro>, come nell’arca di Noè. Senza sensi di colpa. Come nelle confessioni da ragazzi: piccoli peccati, cattivi compagni, piccole penitenze, poi l’assoluzione e… tutto come prima (e nei più sensibili, ma solo per attimi, moderati sensi di colpa). Così all’Eur, il bisogno della piccola espiazione si tradusse in una corsa così numerosa, mai vista così, certamente freudiana, alla usuale celebrazione congressuale della Messa. Con “Comunione” di tutti, tanti, troppi, anche quelli che non la facevano dalla cresima o dal matrimonio, fino a far esaurire la scorta di particole al sacerdote officiante. E pensare che solitamente nei convegni o congressi la celebrazione eucaristica riguardava pochi intimi, guardati dagli altri, indaffarati nelle trattative congressuali, con disagio e sufficienza. E nonostante questo appariva sempre di più la convinzione della non-recuperabilità siciliana: ne derivava anzi una presa di distanza nei confronti dei riformatori, perché, con il loro riformismo inutile, diminuivano il potenziale di un consenso che solo nei tradizionali modi di raccolta poteva esprimersi in quantità congrue per il mantenimento del potere. Quindi della democrazia. Così alla pensosa tormentata malinconia di questa fase, anche di transizione verso il nuovo partito popolare, è da ascriversi il fastidio nei confronti della costituente siciliana (e di quella veneta). E fu per questo che alla costituente nazionale l’unico scontro veramente duro avvenne proprio sui temi della assemblea preparatoria siciliana.
Tutti i siciliani schierati strategicamente dietro grandi e piccoli leader. Grintosamente rivolti, con Mastella, con Gargani e con molti altri, a contestare, fino allo scontro, anche le storie di famiglia e le paternità, come nella favola del lupo e dell’agnello. L’imbarazzato Martinazzoli affermava che era inutile l’ipotesi di una riscossa tra «le schegge di un passato» che era finito perché si era «compiuto». Ma questo decretarne con un fil di voce la compiutezza poteva esorcizzarne gli effetti? Si potevano cancellare con un lamento le colpe dell’olocausto dei cattolici democratici? Ed era coerente distinguere, per autoassolversi, con evidente paradosso logico, l’illecito per il partito e l’illecito personale? Come se l’illecito per il partito non fosse ancora più grave, proprio per la sua capacità di incidere sui modi di acquisizione del consenso e quindi per l’interferenza nelle procedure della democrazia, corrodendo in modo continuato le regole della convivenza civile.
Forse alla costituente popolare non poteva accadere nulla di diverso di quello che poi in realtà accadde, visto che la scelta del segretario era di garantire il generale traghettamento dei rappresentanti di tutte le specie, in evidente contraddizione con il progetto del nuovo soggetto politico di andare avanti in una linea di chiara discontinuità. Cosi come invocato a Palermo e poi sancito alla Camilluccia. Tutti cigni, ma fuori Sicilia, erano molti i brutti anatroccoli: così tutto restò indeciso e continuò a galleggiare in un mare di ignavia. A ripensarci (e a rivedere il video registrato, una sorta di blob che, in un montaggio rapidissimo, inanella sequenze diverse rimarcando, proprio per la incongrua velocità degli accostamenti, tutto il senso della precarietà degli avvenimenti) resta la commozione della presidente dell’assemblea Russo Jervolino che grida al microfono ripetutamente, con voce rotta dall’emozione, che è nato il Partito Popolare. Sembra tutto urgente: per l’evento storico «di un battesimo e di un funerale» assieme, come avrebbe definito gli avvenimenti, in un sussurro, Martinazzoli? Si ma anche per non perdere il Pendolino che porterà nell’esilio di Brescia il Segretario e con lui commozioni, dibattiti, speranze, progetti (?). E ricordo lì, accanto alla Jervolino, un basito Helmut Kohl che non capisce nulla pur abbarbicato a una prosperosa traduttrice. A Roma invece resterà Buttiglione, l’allievo di don Giussani, a occupare gli spazi vuoti e a preparare, senza emozioni, una cosa radicalmente diversa. E il prudentemente emarginato De Mita, utilizzando Chateaubriand, dirà, invitato quasi per caso mesi dopo in un consiglio nazionale, di considerarsi uno che ritornava dall’oltretomba. Si, gli psicodrammi personali, dopo aver scaldato i lettini degli psicoanalisti, saranno anche la storia di un controverso domani.
D’ora in avanti moderazione e moderatismo finiranno con l’avere lo stesso significato; l’ossessiva geometria del centro prevarrà sulla politica come processo; sembreranno lontanissime le riflessioni di Moro sull’essere cristiani come scelta, per via “di un principio di non appagamento”, e in virtù di quella condizione di speranza escatologica «che può fare nuove tutte le cose» scandalizzando, se necessario, quietismi borghesi e clerico-moderati, per rideterminare processi di liberazione, nuova costruzione della speranza, ampliamenti della sfera di cittadinanza. I popolari, com’era ovvio, arriveranno più in là alla scissione, ma si ritroveranno a ripetere un tradizionale modello di divisione del lavoro (un déjà-vu), con una “sinistra”, a parte talune eccezioni, meritevolmente rinviata agli studi, e con una struttura di partito, i neo-apparati, invece, intenta a dover fare i conti con eredità non protestate, tra modeste pratiche di gestione, intrallazzi tesserativi, moderatismi, opportunismi di maniera, in condizione di sostanziale afasia? E’ come se, creato il partito nuovo, si fosse perso non solo il sentimento ontologico della diversità, ma anche del diverso rifarsi alla cultura e all’esperienza cattolico-democratica? Poi sarà il “dopo”: i tempi della Margherita, quelli dell’Ulivo. Infine il partito Democratico che nella sua tormentosa durata, poi nella incredibile, a questo punto casuale, crescita, e quindi nella sconfitta, sembrava, nella sua maggioranza bulgara, far di tutto per diventare altra cosa.