Nelle mani di uno sceneggiatore di Hollywood, e con un budget adeguato, la stagione 2000-2001 del Messina F.C. sarebbe potuta diventare un colossal tipo Ogni Maledetta Domenica. Non mancava niente, a quei nove mesi: polvere e fango, discesa agli inferi e risalita verso il paradiso, un vecchio coach saggio, il sanguigno presidente, un manipolo di talentuosissime teste di cazzo, un piccolo esercito di volontà nietzschiane, un epilogo da favola, proprio contro i cattivoni che per tutto l’anno hanno tramato, cospirato, soverchiato, fatto la voce grossa e gli atti di bullismo.
Difficilmente, se chiedi al tifoso messinese, ti indica un’annata più esaltante, più incredibile, più colma di significati. Nel 2000, e nel 2001, andare “al campo” era un rito. Che si officiava al Celeste, che allora non avevamo idea di quanto avremmo rimpianto.
Quell’incredibile stagione si concluse con una promozione che ha a tutt’oggi del mistico e della predestinazione, e di tutte le squadre, quella con cui si combatterono le battaglie più cruente fu il Catania: dominatrice incontrastata durante la stagione regolare, battuta ai playoff che diedero la serie B. In mezzo, come ogni colossal che si rispetti, peripezie, personaggi, storie che si intrecciano, sconfitta e poi vittoria. E morte, pure.
In campionato, quel Messina conta su un mix di talento puro (Enrico Buonocore e Daniele Portanova), giocatori in quella fase della carriera in cui tutto riesce alla perfezione (Vittorio Torino e Denis Godeas), cervello (Sasà Sullo), polmoni (Manuel Milana e Fabio Di Fausto), muscoli (Mimmo Cecere, Gigi Corino) e cuore molto, molto grande (Antonio Obbedio). Sfortunatamente, sulla panchina le prime partite il ciuffo e la sciarpetta di Paolo Beruatto non funzionano, e vengono presto sostituite dalla tuta acetata da pensionato Cral di Carlo Florimbi.
Il primo clamoroso tonfo, di quelli che non fa presagire niente di buono e lascia l’incazzatura addosso per una settimana, è al Cibali di Catania, stadio nel quale i rossazzurri passeggiano sulle spoglie mortali dei messinesi, calando quattro brucianti gol, con Recchi, Muntasser, Marino e Capparella: in cinque partite, tre pareggi, una vittoria stentata e poi presi a pallate in faccia dai più odiati esseri viventi sulla terra, calcisticamente parlando. Non va bene. Beruatto rimarrà sulla panchina del Messina fino alla nona giornata, quando gli sarà preferito il semisconosciuto e anonimo Carlo Florimbi. Che parte non fortissimo, ma poi va a picchiare il Palermo, invincibile armata di quel campionato, a domicilio, alla Favorita. E insomma, il girone di andata si chiude tranquillo, con sprazzi di malcelato entusiasmo.
Senonchè, alla quinta di ritorno al Celeste arriva il Catania, e si prende le sue soddisfazioni: Alessandro Ambrosi, soprannominato dal solito senso della misura catanese “Re Leone” come Batistuta, coi messinesi ci spazza il pavimento, e piazza due pappine in fondo alla rete difesa dal forte Mimmo Cecere. Fuori dal Celeste si scatena una guerra che manco a Città del Messico, coi cassonetti bruciati per strada ad impedire l’uscita dei catanesi dallo stadio (se ne andranno alle due) e idranti a disperdere la folla. Una faida, questa tra tifoserie, nata qualche tempo prima, quando in occasione di una innocua coppa Italia estiva, uno scienziato ha pensato bene di far volare una rasta dal quinto piano del balcone dritta verso la testa di un gruppo di supporters rossoblu, mancandone uno per un pelo. Sono tutti avvertimenti che qualcuno avrebbe dovuto cogliere, e che esploderanno tragicamente qualche mese dopo.
Nello scorno dei più, il Catania fa il galletto solo col Messina, visto che in campionato annaspa nella più totale mediocrità, mentre il Messina, che altrove si piglia le questioni, con Catania diventa remissivo. E perde. Si tira in ballo il centenario complesso di inferiorità autoalimentato, la malasorte, un complotto cattoplutomassonico, ma niente, non se ne viene a capo. In due partite, Catania sei gol, Messina zero, pigliare e portare a casa.
Tutta la faccenda viene archiviata in fretta quando il Messina va ad Avellino a vincere una partita già vinta, che gli varrebbe la promozione diretta in serie B dopo un solo anno di c1, un sogno ad occhi aperti. E invece la perde. Male, la perde. Diecimila messinesi si mollano verso l’Irpinia, incuranti del fatto che mezza Salerno-Reggio si mette di traverso, franando. Pullman dispersi, gente che per non perdere un minuto di partita fa inversione in autostrada e si sciroppa gli invitanti paesi della Calabria ionica con le auto piazzate a festa di paramenti giallorossi, altri che attendono che l’autostrada si liberi, sgranando il rosario e non per pregare. Fattostà che chi prima, chi in extremis e chi a secondo tempo inoltrato, si arriva pressochè tutti ad Avellino, fino a quel momento non esattamente agguerritissimo contro i giallorossi, in tempo per assistere ad un tuffo in piena area che a Pietro Sportillo, terzinaccio sinistro del Messina, sarebbe valso un oro olimpico e che inspiegabilmente l’arbitro considera sia rigore. E’ fatta. Lo pensano i diecimila (venti per cento dei quali via radiolina, dispersi da qualche parte tra Campania e Sicilia), lo pensa anche Vittorio Torino, 58 gol in tre anni, uno che fino a quel momento col pallone ha fatto quello che ha voluto per un campionato, mettendola dentro in ogni maniera.
Se mai c’è stata la possibilità di datare al secondo la fine della carriera di un atleta non morto sul colpo o stroncato da un infortunio invalidante, l’attimo in cui il rigore di Torino finisce tra le braccia di Sansonetti è probabilmente l’esempio più puro. Un colpo dal quale l’attaccante non si riprenderà più, e che ha rappresentato la pietra tombale sulle sue ambizioni. A Messina, la percentuale di cattolici subisce un crollo, e mentre il Palermo ci fa ciao ciao con la manina, promosso dritto in serie B, a noi toccano i playoff. E si inizia a materializzare l’incubo ricorrente.
Perché tra le quattro che spareggiano la cadetteria, c’è anche il Catania, nel frattempo arrivato terzo in campionato. Quel Catania. La nemesi storica, quello dei sei gol contro zero gol, delle due sconfitte. Quello della tifoseria bruta e spaccona, quello dei “’mbare” ogni tre parole, quelli da affrontare col morale sottoterra e con le inevitabili chiacchiere (“non vonnu nchianari”) che accompagnano questi episodi. A questo punto, il colossal hollywoodiano piazzerebbe il momento di introspezione, quello in cui dentro di sé l’eroe trova la forza per superare la temperie della sorte, per innalzarsi sopra i suoi limiti, per diventare davvero eroe.
A Messina, tutto sto bordellino ha la faccia rotonda di Enrico Buonocore che, rasato a zero tipo condannato ai lavori forzati, chiama a raccolta e suona la carica con la sua prosa ubriaca, scolpendo nel granito della storia quelle parole che, due settimane dopo, saranno state profetiche: “Sta tutt’ scritt’”.
I playoff iniziano a fine maggio, e un Messina ancora preso dalla botta incontra il non irresistibile Ascoli: perde fuori, vince in casa con le provvidenziali reti di Buonocore, che davvero dopo la dichiarazione belligerante ha preso per mano la squadra, e del friulano Denis Godeas, definizione da manuale di uno che ha il ghiaccio nelle sacchette, non sente la tensione, e dell’ambiente prono agli psicodrammi gliene fotte meno di zero. Il Catania fa lo stesso con l’Avellino, e già si intravedono le macchinazioni del destino cinico e baro, che rimette sul cammino del Messina il bullo Catania. Ma qualcosa è cambiato.
Man mano che va avanti il secondo tempo contro l’Ascoli, il Messina inizia ad essere posseduto da una feroce determinazione. Giocano Cattivi, spavaldi, consapevoli, a testa alta. Non ci metteranno i piedi in faccia, non di nuovo. Non glielo permetteremo, sembrano voler dire. L’andata si gioca al Cibali. La spavalderia catanese inizia a mostrare crepe quando il Messina non solo non subisce, ma inizia a parlare ai catenesi con le mani in faccia. Soprattutto Ciccio Marra, ala che durante il campionato non aveva fatto miracoli, ma che in quel giugno va a velocità doppia rispetto ai marcatori. Ma siccome il destino è cornuto, sulla strada delle ambizioni del Messina si diverte a mettere di nuovo Alessandro Ambrosi, che con un rigore gela chi, a casa, riusciva a godere degli albori delle pay tv. Siccome ad avercela erano in pochi, ogni soggiorno si trasformava in una piccola curva. Bei tempi.
Il Cecere che va a prendere la palla in fondo alla rete ha gli occhi iniettati di sangue, così come il resto dei suoi compagni, per l’occasione in casacca inspiegabilmente grigioscudata. Ed è il sangue che vanno cercando. Da quel momento, in campo i giallorossi annichiliscono qualunque velleità rossazzurra. Si aggirano per il prato spelacchiato del Cibali tipo i ghepardi, a mordere la strada col cuore pieno di napalm. A un pugno di minuti dalla fine, Ciccio Marra si improvvisa Godeas e la mette dentro, grazie a Godeas che si era immediatamente prima improvvisato Ciccio Marra, crossando basso in area, dopo una di quelle magie di Buonocore che piegavano lo spazio tempo ai suoi voleri, immaginando campo e profondità lì dove non ne esisteva prima. Gli “’mbare” si spengono lentamente sulle bocche dei catanesi. Uno a uno: punteggio che in virtù del miglior piazzamento autorizzerebbe misurati entusiami. Però il Catania è sempre il Catania, infido, infame, indegno. E i sei gol ancora bruciano sulla pelle come un’ustione chimica.
La settimana scorre via in apnea. In città non si parla pressochè di nient’altro. Sembra la vigilia dello sbarco in Normandia. Il questore dell’epoca, Giuseppe Zannini Querini, spiega alle telecamere che per la calata dei catanesi in città “si è previsto pure l’imprevedibile”, e solo il tempo dimostrerà quanto sbagliata era quella previsione. Dal sabato sera, l’autostrada verrà bloccata, e potrà passare solo chi ha con sé il biglietto o un qualsiasi titolo di viaggio. Arriva finalmente il 17 giugno. La domenica, il Celeste inizia a riempirsi a mezzogiorno, con gente che fa la fila dalle otto e mezza. Le cronache parleranno di poco più di diecimila paganti, in realtà sono non meno di trentamila, dato che per ogni gradone ci sono tre persone. I catanesi si accomodano nella tribunetta Valeria, che assomiglia ad un pollaio. Non basta una rete alta sei metri per impedire che, da una parte e dall’altra, si lancino bottiglie, petardi, bombe carta. Una di queste, ad oggi non si sa lanciata da chi, colpisce in pieno il povero Tonino Currò, che morirà qualche giorno dopo.
In campo, la partita è prevedibilmente poco spettacolare. Il Catania dovrebbe attaccare a testa bassa, perché del pareggio non se ne fa nulla, ma arranca. Il Messina dovrebbe attendere sornione, ma tenere a bada Enrico Buonocore è un’impresa, e il piccoletto di Ischia fa salire la febbre ai difensori catanesi. Baronchelli, in particolare, che già è responsabile del gol di Marra a Catania, lasciandosi bruciare sullo scatto da Godeas che proprio un Pietro Mennea non è. Memore, lo marca stretto. Troppo. A tal punto che, al 53simo, abbraccia il friulano in piena area mentre questi è intento ad intercettare un tracciante di Sasà Sullo. Rovinano entrambi a terra. Rigore.
I respiri di trentamila persone si fermano, finchè è lo stesso Sullo che, senza guardare in faccia nessuno e senza mutare espressione, prende la palla sotto braccio, la piazza sul dischetto, guarda il portiere catanese Iezzo come se in sottofondo ci fosse una musica di Morricone, poi piglia tre passi di rincorsa e lo fulmina. Senza sudare, probabilmente. È fatta. I catanesi non capiscono più nientre, fanno entrare la quarta punta, quel Totò Criniti che degli etnei doveva essere il progetto Manhattan, ma che a conti fatti si è rivelato ininfluente, giusto una punizione che Cecere neutralizza e stop. Storditi, subiscono anche un pallonetto da quaranta metri di Buonocore che non è gol davvero per tanto. Poi, mezz’ora dopo, l’arbitro mette fine alle loro pene fischiando la fine. Il celeste esplode. In diecimila scavalcano tutto lo scavalcabile e invadono il campo. I più intraprendenti si tolgono macigni dalle scarpe e, dopo un anno di sofferenza, si piazzano sotto la tribuna Valeria a pigliarsi soddisfazione davanti ai tifosi del Catania ormai cadaveri. Spunta pure, non si sa bene da dove, la Fiat 500 giallorossa che già l’anno prima aveva salutato la promozione diretta in c2. Il mai troppo compianto presidente Emanuele Aliotta torna un bambino di sette anni. Stringe mani, abbraccia sconosciuti, ride e piange in ugual misura. Come i trentamila dello stadio, come i duecentoventimila per i quali questa partita non era solo una partita, era LA partita, contro l’arrogante Golia, contro l’uomo nero delle favole, contro il vicino soggiogatore.
Messina non viveva una festa di popolo simile dalla promozione in serie B del 1986. Nella appena rifatta piazza Cairoli non c’è un centimetro quadrato libero. I lavori del tram, che per entrare in funzione ci vorranno ancora due anni, hanno previsto, lungo i binari, un delizioso prato all’inglese, sul quale appoggeranno i loro culi stanchi in migliaia, felici e ubriachi. Termina la stagione più incredibile che la Messina calcistica vivrà per molto tempo, per certi versi addirittura superiore alla promozione in serie A di quattro anni dopo.
Il pathos, l’avversario elettivo, la discesa negli inferi e la risalita verso il paradiso, la felicità e la tragedia, la sconfitta che prepara alla vittoria finale: sembra un film. Forse lo è stato davvero.
Stupendo articolo, mi è venuto un groppone in gola…
Articolo fantastico! Che tempi
complimenti, articolo da brividi..